Parlerò ora del rinchiudersi liberatorio. Paradossale? Rinchiudere, direte, vuol dire limitare, punire: impedire cioè la libertà.
Ho creato un luogo il cui nome stesso ne ricorda la caratteristica principale: il Closlieu. È uno spazio giudicato normalmente ridotto da visitatori occasionali, ma che possiede le dimensioni di una giusta intimità per i suoi frequentatori abituali.
È un luogo accogliente quanto una patria recuperata. Entrando è difficile capire che cosa si ritrova e che cosa ci aspetta. Al suo interno l’essere fiorisce.
Le sue quattro pareti sono scintillanti, come l’interno di una tasca. Entrare in questo rifugio è come abbandonare il proprio guscio per inoltrarsi in una notte quieta e dolce: coloro che condividono questo spazio non sono antagonisti.
Vivono una situazione straordinaria priva di competizione, priva di riferimenti e della necessità di trovare giustificazioni alle proprie azioni. Situazione nella quale gli sguardi non interrogano, non trasmettono volontà di dominio. Il giudizio è superato dalla verità degli atti.
Ogni cosa è perfezione, immutabile e inalterabile: l’atmosfera (che determina l’azione ma che è sancita dall’azione stessa), la mia presenza, quella dei bambini, piccoli e grandi, venuti dai luoghi più diversi (e non da un quartiere, da un ambiente determinato), la natura dei gesti, gli strumenti utilizzati… tutto fuori dalle norme, dalle prassi, dalle relazioni, dagli oggetti, dal compimento di regole di altri luoghi. Ogni cosa in questo luogo è un succedersi continuo. Causa ed effetto si confondono così come le macchie sulle pareti: si può dire che qualcuno le abbia dipinte? Esse spingono all’azione.